Sull’unica identità e come superarla
Sempre più persone parlano di identità culturale. Ne parlano i politici, che ne fanno il mantra centrale delle loro campagne, e ne parlano gli intellettuali che su di loro riflettono. Le voci emergenti sono in disaccordo: c’è chi la considera come un elemento unico, sacro e da proteggere, e c’è chi invece parla di identità multiple, radici selezionate e libera scelta del sé che si vuole mostrare.
Giusta o sbagliata che sia, se una visione esiste allora, in un certo rispetto, è conveniente. Ragioniamo dunque su questo: a noi, persone e gruppi che affrontano la vita ogni giorno, in che ottica conviene leggere l’identità nostra e di chi ci circonda?
La nostra lettura più comune si fonda sulla paura. Ogni giorno affrontiamo un mondo molto più grande di noi, pieno di incertezze e di interazioni che spesso non controlliamo. A fronte di questo caos, avere un punto fermo è un faro nella tempesta: ci assicura che, almeno lì, le scure onde del mare non arriveranno. Adottare l’unica identità è quindi facile, quasi confortante. Un modo efficace per non “affogare nella moltitudine”, direbbe Ugo Volli.
Eppure, tenere dei punti fissi nasconde un’insidia che fin troppo spesso si vede protagonista di conflitti. Quando qualcosa è importante per noi – al punto da definire ciò che siamo nel mondo – sarà troppo nevralgico nel nostro sistema perché possiamo metterlo in discussione, e quindi aprirci al dialogo. Come potremmo rapportarci con qualcun altro che ha un principio ugualmente saldo, ma speculare, come nucleo della propria identità? Saremmo disposti a lasciare il nostro caposaldo, e tornare nell’abisso dell’incertezza per un mero confronto? Probabilmente no.
Diventa molto più semplice, a quel punto, trasformare l’altro in un nemico, e convertire il confronto in un conflitto. Per Umberto Eco, il nemico catalizza l’identità, perché affrontarlo e superarlo rinforza il nostro sistema di valori, e per converso anche noi. Ma vogliamo davvero essere guidati da un sistema identitario che fa dei conflitti la sua ragion d’essere? L’esperienza umana sembra dire di sì, visto quanto spesso persone, gruppi e nazioni soffrono le conseguenze di questo concetto.
Tuttavia, ora abbiamo le conoscenze e la coscienza per relazionarci in modo migliore. Per pensare all’identità non come a una pelle da cui non possiamo separarci, ma come a una maglietta che, afferma Eric Hobsbawm, possiamo indossare e cambiare a seconda dell’esigenza. Così non attribuiremmo eccessiva importanza all’unica identità che ci resta, ma saremmo in grado di decidere funzionalmente quale parte di noi è più utile al confronto e al dialogo.
“Tragicamente, per l’umanità l’estraneità è un punto di arrivo e non di partenza”, si rammarica Gian Paolo Caprettini. Ed è vero, perché spesso vediamo la nostra unica identità come il nostro punto di forza e di debolezza. Ma ora che questo dispositivo mostra i suoi limiti, non sarebbe il caso di aggiornarlo? Se sempre più persone rinunciassero a vincere per avere il miglior dialogo possibile con l’altro, che risultato avremmo?
Gabriele Evangelisti
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