Muri imponenti, identità instabili
Ancora oggi il mondo si riga di muri. Strutture di cemento, fili spinati o barriere virtuali: scudi potenti eretti per recintare nazioni più protette. Tra i più noti quello che corre tra gli Stati Uniti e il Messico, quello israeliano, la barriera elettrificata in Sud Africa, la linea militare tra le due Coree, quella in India, che chiude fuori il Pakistan e il Bangladesh; ma anche in Europa con il muro di Belfast, quello greco e bulgaro con la Turchia, o quello dell’Ungheria con la Serbia. Insomma, un elenco lunghissimo per un totale di oltre 40mila chilometri di muri e barriere.
Ma perché la necessità di costruire i muri?
Nonostante l’imponenza delle dimensioni, spesso i “nuovi muri” sono simboli iperbolici che mettono in scena una forza che di fatto non hanno. In un mondo globalizzato, erigere un confine fisico si traduce in un paradosso. Ciò che veicolano è un punto di vulnerabilità della sovranità statale che cerca di riaffermarsi contro forze globali che minacciano l’identità dello Stato-nazione.
I motivi ufficiali che ne legittimano la costruzione sono legati alla necessità di tener fuori una serie di problemi: gli immigrati, i contrabbandieri, i terroristi. Tuttavia l’estraneo pericoloso, dal quale ci si deve proteggere, non si scoraggia di fronte alle fortificazioni. Wendy Brown, filosofa politica emergente sulla scena internazionale, argomenta in Stati Murati, sovranità in declino come le barriere non aumentino la sicurezza perché non bloccano, di fatto, episodi di violenza e ostilità, ma semplicemente ne provocano il cambiamento in termini di strategie o tecnologie, risultando, nel loro scopo interdittivo, inefficaci. Rendendo la migrazione più costosa e difficile, i muri incrementano quella unidirezionale, senza ritorno, e accrescono così il numero degli illegali che vivono stabilmente in Europa o negli Stati Uniti. Si finisce dunque col produrre un’economia del contrabbando sempre più sofisticata e difficile da controllare. Le droghe vengono nascoste meglio e trasportate attraverso elaborati sistemi di tunnel sotterranei: dal 2001, lungo il confine Stati Uniti-Messico ne sono stati scoperti circa quaranta. L’intensificazione dei controlli inoltre rende le zone di frontiera territori sempre più violenti e moltiplica episodi di illegalità come i gruppi organizzati di vigilantes americani che, per sopperire all’inefficacia dello Stato, si incaricano di controllare le frontiere.
Difendere l’identità
La necessità di creare un nemico al di fuori dei propri confini cela piuttosto un altro tipo di problema: quello dell’identità. Come afferma Umberto Eco in Il diverso che viene trasformato in nemico, “avere un nemico è importante nella definizione dell’identità, ma anche per crearci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarla, il nostro valore”.
In una cultura dell’illimitato, omogeneizzata e globalizzata, la più grave minaccia è quella che attacca infatti l’identità culturale, linguistica ed etnica. L’ “io” e il “noi” si definiscono se avviene la proiezione dell’idea di pericolo sul diverso, su ciò che sta fuori dal nostro recinto, alimentando una fantasia di contenimento e di rassicurazione in cui i muri assumono un ruolo fondamentale.
Ma perché la necessità di costruire i muri?
Nonostante l’imponenza delle dimensioni, spesso i “nuovi muri” sono simboli iperbolici che mettono in scena una forza che di fatto non hanno. In un mondo globalizzato, erigere un confine fisico si traduce in un paradosso. Ciò che veicolano è un punto di vulnerabilità della sovranità statale che cerca di riaffermarsi contro forze globali che minacciano l’identità dello Stato-nazione.
I motivi ufficiali che ne legittimano la costruzione sono legati alla necessità di tener fuori una serie di problemi: gli immigrati, i contrabbandieri, i terroristi. Tuttavia l’estraneo pericoloso, dal quale ci si deve proteggere, non si scoraggia di fronte alle fortificazioni. Wendy Brown, filosofa politica emergente sulla scena internazionale, argomenta in Stati Murati, sovranità in declino come le barriere non aumentino la sicurezza perché non bloccano, di fatto, episodi di violenza e ostilità, ma semplicemente ne provocano il cambiamento in termini di strategie o tecnologie, risultando, nel loro scopo interdittivo, inefficaci. Rendendo la migrazione più costosa e difficile, i muri incrementano quella unidirezionale, senza ritorno, e accrescono così il numero degli illegali che vivono stabilmente in Europa o negli Stati Uniti. Si finisce dunque col produrre un’economia del contrabbando sempre più sofisticata e difficile da controllare. Le droghe vengono nascoste meglio e trasportate attraverso elaborati sistemi di tunnel sotterranei: dal 2001, lungo il confine Stati Uniti-Messico ne sono stati scoperti circa quaranta. L’intensificazione dei controlli inoltre rende le zone di frontiera territori sempre più violenti e moltiplica episodi di illegalità come i gruppi organizzati di vigilantes americani che, per sopperire all’inefficacia dello Stato, si incaricano di controllare le frontiere.
Difendere l’identità
La necessità di creare un nemico al di fuori dei propri confini cela piuttosto un altro tipo di problema: quello dell’identità. Come afferma Umberto Eco in Il diverso che viene trasformato in nemico, “avere un nemico è importante nella definizione dell’identità, ma anche per crearci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarla, il nostro valore”.
In una cultura dell’illimitato, omogeneizzata e globalizzata, la più grave minaccia è quella che attacca infatti l’identità culturale, linguistica ed etnica. L’ “io” e il “noi” si definiscono se avviene la proiezione dell’idea di pericolo sul diverso, su ciò che sta fuori dal nostro recinto, alimentando una fantasia di contenimento e di rassicurazione in cui i muri assumono un ruolo fondamentale.
Ludovica Giannetti
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