La trappola dell’identità: cercarsi nell’era del rumore
Siamo immersi in un tempo che ci spinge a definirci. Chi sei? Da che parte stai? Qual è la tua verità? L’identità sembra essere diventata un dovere, una prestazione da esibire, più che un processo da coltivare. Ma in questo frastuono di identità urlate si rischia di dimenticare ciò che le rende davvero autentiche, dalla loro complessità alla loro lentezza, fino alla capacità di cambiare restando fedeli a sé stesse.
C’è un paradosso evidente: più gridiamo il nostro essere unici, più finiamo per assomigliarci. Ricadiamo spesso in modelli preconfezionati in cui anche il modo di parlare e di pensare, sembra appartenere a qualcun altro. C’è una paura di fondo, sottile ma costante: quella di non essere accettati. Così, per sentirci parte di qualcosa, ci adattiamo, e l’identità, invece di essere un territorio da esplorare, diventa una divisa da indossare, un rifugio rassicurante, certo, ma anche una prigione invisibile.
E quando qualcuno esce da questo schema – la sua lingua, il suo corpo, il suo pensiero ci sembra troppo “altro” – scatta il sospetto. La differenza, da risorsa diventa minaccia, ed è in questi frangenti che nascono le etichette peggiori, come quella di “straniero”. L’esclusione agisce anche senza violenza, attraverso l’ironia, il disprezzo mascherato da civiltà, l’indifferenza e il giudizio implicito. La paura del diverso è, in fondo, la paura che il nostro fragile castello identitario venga messo in discussione.
Allora si cerca di difendersi chiudendo porte. L’identità però si costruisce proprio nell’incontro. Non è solo l’opposizione a definirla, è la relazione stessa a farlo. Non si tratta di annullarsi nell’altro, né di tollerarlo con superiorità, si tratta di mettersi in discussione, di scoprire che anche ciò che ci sembra lontano può toccarci, parlarci, trasformarci. L’identità non è una fortezza, è un organismo vivo, che si modella nel tempo e attraverso gli altri. Paul Ricoeur parlava di “identità narrativa”, cioè di un sé che si costruisce grazie alle storie che racconta e riceve. Da questo punto di vista ogni alterità è un’occasione di scrittura nuova, non una minaccia di cancellazione.
Cercare la propria identità, oggi, vuol dire anche imparare a stare nel dubbio e nell’asimmetria. Significa rifiutare le scorciatoie del pensiero unico, del "noi contro loro”, riconoscendo e accettando il fatto che nessuno si basta da solo per sapere chi è. La vera forza identitaria, forse, sta proprio in chi sa attraversare il mondo senza smarrirsi e al contempo senza chiudersi, perché un’identità che ha bisogno di un nemico per esistere è già un’identità in crisi.
Gianluca Longhini
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