Essere è non essere. Cosa ci insegna lo strutturalismo sull’identità
Lo strutturalismo ce l’ha insegnato: l’identità di un termine linguistico non è qualcosa che si predica. Non è come dire che il cielo è blu, o che l’acqua è bagnata. L’identità di un lessema, di un morfema o di un fonema si definisce per sottrazione, come quando si gioca a Indovina Chi?. Ogni risposta negativa restringe il campo, affina la forma, e delimita così l’oggetto. Non c’è un’essenza che precede la relazione: c’è solo la relazione.
Prendiamo a esempio una parola come /ascia/. Possiamo certamente dire che l’ascia è uno strumento da taglio, con una lama e un manico, utilizzata per abbattere alberi o spaccare legna. Questo è in fondo quel che troviamo scritto in qualsiasi dizionario. Eppure, la definizione non esaurisce il significato della parola. Dal punto di vista strutturale, un’ascia è un’ascia perché non è un’accetta e non è una scure. Perché non serve a dissodare la terra come una zappa, con cui condivide il taglio, o a spaccare le pietre come una piccozza. La sua identità è data insomma dal posto che occupa nella rete delle opposizioni; deve il suo statuto a tutto ciò che non è, e non viceversa.
Va da sé che tale principio non vale solo per le asce, le accette, le scuri e tutti gli altri attrezzi del caso. Anche la nostra identità culturale può essere analizzata a buon diritto con il metodo strutturale. Del resto, non siamo ciò che siamo perché apparteniamo a questo gruppo, o perché votiamo quel partito. Riduzionismi del genere sono da abbandonare a piè pari. Siamo ciò che siamo perché opponiamo le nostre credenze, i nostri abiti, i nostri valori a qualcuno che è fuori dal nostro orizzonte semiotico; qualcuno che ci definisce in negativo.
Lo diceva anche Umberto Eco. Possiamo riconoscere noi stessi solo in presenza di un Altro. Per questo siamo sempre anti-questo o anti-quello; ne va della nostra identità. Non siamo vegetariani né cattolici, non ascoltiamo disco, non portiamo sandali. La domenica pomeriggio non guardiamo la partita, e guai se ci parlano di politica. Dobbiamo sempre far sapere chi non siamo. E così, nel sottrarre, ci disegniamo per assenza, come il triangolo di Kanizsa o la sagoma di Hitchcock.
Dopotutto, è la società stessa che ci spinge in questa direzione. Come notaGian Paolo Caprettini, i social network hanno abbattuto ogni barriera culturale. La vera migrazione, oggi, non è quella dei corpi, ma quella dei segni. Immagini, simboli, stili, forme espressive circolano senza sosta, si ibridano, si riadattano, vengono svuotati del loro contesto originario e riplasmati secondo logiche locali, personali, talvolta completamente arbitrarie.
In questo scenario, sentiamo quindi il bisogno di alzare barriere, di delimitare spazi per definire chi siamo. Poco importa quanto reggano. Ed è qui che lo strutturalismo può tornarci utile. Se la sfida che ci attende, comespiega Ugo Volli, è “recuperare l’identità, senza ossessioni”, lo strutturalismo può dirci senz’altro dove cercarla. O per meglio dire, può dirci dove non cercarla.
Giorgio Fraccon
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