Mahmoud Ajjour, Aged Nine
Silenzi e vite amputate nella foto vincitrice del World Press Photo 2025
La fotografia Mahmoud Ajjour, Aged Nine è intrisa di una potenza toccante quanto disarmante. Il bambino gazawo immortalato nello scatto è seduto nella penombra e una luce proveniente da destra gli illumina il viso. Ha nei sulla fronte e sul petto, lunghe ciglia scure e due occhi grandi. E braccia amputate. L’effetto è forte, ma l’intensità della foto è tutta racchiusa nello sguardo del giovane. La testa girata di tre quarti rispetto al busto suggerisce che seppur il suo corpo sia presente, la sua mente è altrove. Cosa stia pensando, però, non lo possiamo sapere. Gli occhi appena abbassati e le labbra serrate contribuiscono alla costruzione di un silenzio totalizzante e assordante, che non lascia possibilità di parola.
Nel libro La camera chiara, Roland Barthes scriveva: «io sono il punto di riferimento di ogni fotografia, ed è per questo che essa mi induce a stupirmi, ponendomi l’interrogativo fondamentale: perché mai io vivo qui e ora». Ebbene, davanti a questa immagine una seconda domanda non può che accostarsi alla prima: perché mai lui vive lì e ora? E ancora, semplicemente: perché?
La fotografia, come la più antica delle filosofie, ci pone domande senza darci risposte, «non nasconde, ma non parla».
Barbara Casoli
L'estetica del dolore e i limiti etici del fotogiornalismo di guerra
Quando una fotografia mostra un bambino mutilato da un bombardamento, ritratto frontalmente e immerso in una malinconica luce dorata, l'impatto emotivo è inevitabile. L’immagine vincitrice del World Press Photo 2025 è potente, sì, ma per diversi aspetti problematica. Pur nella sua drammaticità, appare costruita secondo una logica estetizzante che sembra mirata a suscitare pietà negli occhi di chi guarda.
Se la forza documentaria del medium fotografico risiede nel suo ineluttabile legame con la realtà – ciò che Roland Barthes definiva come il noema della fotografia, il suo "è stato" – qui le scelte compositive sembrano invece voler guidare e amplificare la nostra reazione emotiva, riducendo paradossalmente la forza testimoniale dello scatto.
La fotografia non ci restituisce la portata del conflitto, né solleva interrogativi sulla sua evoluzione. Piuttosto mostra, con crudezza e con un certo pathos, una vittima esemplare. Il suo volto esposto senza mediazioni. Colpisce, ma non interroga, e pur avendo un impatto visivo immediato, neutralizza proprio quel senso di responsabilità e urgenza che dovrebbe invece attivare.
Susan Sontag, in Davanti al dolore degli altri, parlava di "pornografia del dolore", ricordandoci che nessuna immagine di guerra è mai neutrale: chi scatta seleziona e interpreta. Ma quando la sofferenza diventa spettacolo – soprattutto quella dei minori – si sta davvero testimoniando, o si sta consumando un'emozione altrui?
Claudia Cassano
Ritrarre il trauma: la fotografia come testimonianza
Testimoniare è un processo semiotico, un atto prima percettivo, di chi assiste a un evento, e successivamente comunicativo, il racconto di ciò che si è vissuto. Testimoniare un trauma, facendolo oggetto di una narrazione, permette non solo di renderlo accessibile al mondo, ma anche di rielaborarlo e superarlo.
Tra le diverse forme che può assumere questa dinamica – dal racconto orale alla scrittura – vi è anche la fotografia. Un caso esemplare è questo ritratto, che vede protagonista Mahmoud Ajjour – un bambino di nove anni che nel 2024 ha perso le braccia a causa dei bombardamenti israeliani su Gaza.
A scattare la foto è la palestinese Samar Abu Elouf, che con il suo lavoro si fa testimone diretto e indiretto: lei stessa, infatti, fu evacuata nel 2023 a Doha, in Qatar, dove documentò poi le esperienze di altri rifugiati. È lì che la storia di Mahmoud la spinse a ritrarlo nella sua semplicità: la luce calda focalizza l’attenzione sullo sguardo malinconico in contrasto con la sua giovane età, mentre lascia in ombra le spalle e le braccia amputate.
Questo scatto, vincitore del World Press Photo 2025, ci racconta un trauma individuale e collettivo, e con esso il sogno di Mahmoud e della sua comunità di tornare alla vita quotidiana, lontano dagli orrori della guerra.
Federica Cultrera
Mahmoud Ajjour: la tragedia di Gaza negli occhi di un bambino
Davanti a questa foto, alcuni di noi avranno sentito un moto di repulsione, distogliendo lo sguardo o scrollando con un unico rapido gesto fino alle prime lettere. Sentendosi in colpa per il rifiuto istintivo, saranno tornati indietro e, unendosi ai più coraggiosi, si saranno soffermati su un’immagine dura, vera e potente.
La fotografia ritrae Mahmoud Ajjour, giovane vittima dell’ultimo inasprimento del conflitto a Gaza. Il suo corpo mutilato emerge dalla penombra di una stanza spoglia, e abiti di fortuna malcelano le sue critiche condizioni. Tutto ciò non appartiene alla figura di “bambino” a cui siamo abituati, piena di colore e giocosità. Al contrario, il suo sguardo inespressivo ci spinge a ragionare su cosa sia successo, di tanto grave, da privarlo della gioia che meriterebbe.
Il nostro occhio rifugge questa realtà: non vogliamo pensare che, a pochi passi da noi, esista un mondo tanto diverso. Ma proprio per questo è importante che qualcuno ce lo ricordi. Samar Abu Elouf, vincitrice del World Press Photo 2025, eleva Mahmoud a simbolo, e la sua sorte diventa quella di molti, troppi altri bambini. E noi, davanti a questa nuova e tragica Venere di Milo, abbiamo il dovere di guardare.
Gabriele Evangelisti
Oltre l'assenza: la testimonianza di guerra nel ritratto di Mahmoud Ajjour
L’impatto della fotografia vincitrice del World Press Photo Contest 2025 (Figura 1) lascia una traccia indelebile nella memoria collettiva, facendosi portavoce di un conflitto, quello israelo-palestinese, che sfida ormai qualsiasi tentativo di pacificazione.
Mahmoud Ajjour ha nove anni. I raggi del sole si stagliano impietosi sul suo esile corpo, agendo come l’esplosione: lo mutilano, pretendono di decidere quali parti di esso evidenziare e quali nascondere. A risaltare sullo sfondo bianco non è ciò che manca, quanto ciò che resta: non le braccia amputate ma il volto e il busto, i luoghi che custodiscono le profondità dell’umano.
Lo sguardo vacuo e intenso di Mahmoud, fotografato da Samar Abu Elouf, somiglia molto a quello perturbante di Giuseppe Penone che, in Rovesciare i propri occhi (Figura 2), sperimenta con delle particolari lenti a contatto specchianti la possibilità di far diventare il proprio corpo un medium. Sia l’artista che il bambino sono colti in una sorta di cecità istantanea, quasi mitica. Si vede di più quando non si può vedere niente, o quando si è visto già tutto.
Nonostante le loro iridi non siano rivolte verso lo spettatore, lo interpellano, costringendolo a riflettersi nelle immagini di una realtà che si vuole restituire per quella che è, senza alcuna manipolazione.
Che la mancanza diventi inaspettata presenza:
può essere questo il sogno
di un bambino?
Maria Sofia Fiorillo
Cristo si è fermato a Gaza
Si racconta che un villaggio tedesco perse il suo amato crocifisso sotto i bombardamenti. Quando la guerra finì e il crocifisso fu finalmente ritrovato, gli abitanti si accorsero però che era manchevole delle braccia. Così, fecero l’unica cosa che si potesse fare in quel frangente: lo lasciarono com’era, e si limitarono ad apporvi una scritta: “Non ho altre mani se non le vostre”.
Anche Mahmoud è rimasto mutilo durante il conflitto. Ora posa davanti all’obiettivo mentre una luce calda gli colpisce di sghimbescio le spalle, tenendo i moncherini in penombra. Dalla posa al volto assorto, tutto sembra richiamare quella “quieta grandezza” propria della statuaria classica, come se la guerra l’avesse fiaccato, sì, ma senza scalfirne la dignità.
“Non ho altre mani se non le vostre”, sembra dirci. Ma il suo non è un grido d’aiuto, e neppure un segno di resa. Mahmoud – come quel Cristo a cui le bombe hanno strappato via le braccia – chiede solo che qualcuno lo ascolti e se ne faccia testimone vicario. Perché a portare la croce, tanto, ci pensa già lui.
Giorgio Fraccon
La dignità sotto la luce. Intorno alla fotografia vincitrice del World Press Photo 2025
La foto Mahmoud Ajjour, Aged Nine registra la scena di Mahmoud, un bambino che ha perso le braccia a causa della guerra, in un rifugio.
Lo scatto di Samar Abu Elouf presenta un muro di colore uniforme come sfondo. Questo colore minimalista elimina molti disturbi e guida lo sguardo dell’osservatore verso l’oggetto principale. Mahmoud è posizionato al centro dell’immagine, rafforzando ulteriormente questo punto focale visivo. Un raggio di luce investe direttamente Mahmoud, illuminando una parte del viso e del petto. In questo modo, un forte contrasto si crea tra il contorno luminoso e le zone scure circostanti. Ciò rende più evidenti le caratteristiche del soggetto e mette in evidenza le sue spalle senza braccia.
Ma Mahmoud non incarna l’immagine stereotipata della vittima di guerra. Non è crollato, non ha pianto. Siede diritto, con uno sguardo calmo, come se fosse indipendente, autonomo. Le ferite fisiche e psicologiche dei civili sono mostrate con sobrietà, senza drammatizzazione. La fotografa non esprime pietà, ma guarda Mahmoud – e con lui il popolo di Gaza – con rispetto e dignità.
Yingheng Liang
Nel vuoto che resta: un ritratto impossibile da ignorare
Nella fotografia vincitrice del World Press Photo 2025, Samar Abu Elouf cattura molto più di un ritratto, restituisce il grido silenzioso di una condizione disumana. Il bambino, mutilato e immerso in un raggio di luce radente, resta senza implorare, senza piangere. Il suo viso è calmo e forte. La pelle segnata, le braccia assenti, il busto esile coperto da una canottiera bianca diventano elementi visivi di una storia non detta, ma profondamente sentita.
La mancanza corporea non è esibita con crudezza, ma diventa un vuoto strutturale all’interno della composizione. La luce guida il nostro sguardo senza imporsi, costruisce il ritmo visivo dell’immagine e tiene in equilibrio la vicinanza emotiva con una certa distanza necessaria. Il dolore non è spettacolarizzato, è inscritto nella postura, nell’assenza, negli occhi vuoti che restituiscono complessità senza ricorrere a stereotipi emozionali.
Non è una foto che vuole commuovere. È un’immagine che ci costringe a restare, a sostenere lo sguardo, a non fuggire di fronte a ciò che ferisce. Dentro quel volto c’è una resistenza silenziosa, qualcosa che parla anche senza parole. Un’opera che non chiude, ma apre alla riflessione, consegnandoci un frammento di realtà difficile da dimenticare.
Gianluca Longhini
La rassegnazione negli occhi di un bambino: la foto di Samar Abu Elouf
La foto di Samar Abu Elouf è un grido di denuncia
e una richiesta di
ascolto. Vincitrice
del World Press Photo
Contest 2025, rappresenta il drammatico vissuto di migliaia di giovani a Gaza:
nel 2024 la situazione era talmente critica che si stima ci fossero più bambini
amputati pro capite che in qualsiasi altro Paese.
In primo piano, viene mostrato Mahmoud Ajjour, un bambino di nove anni. Ha perso le braccia a causa di una guerra che sta logorando il territorio e che affama la sua gente, come dimostrato dallo sterno sporgente. La canotta bianca, invece, in contrasto con i pantaloni scuri, diventa simbolo della purezza di chi non ha colpe: i bambini.
Un raggio di sole illumina il suo viso e parte del corpo come segno di una possibile rinascita, a cui, tuttavia, si contrappongono gli occhi spenti. È il tipico sguardo di chi ha vissuto un incubo e ha perso la speranza.
La giuria ha sottolineato come l’opera dell’artista testimoni i costi della guerra, lasciando l’osservatore ammutolito dinanzi a un’immagine che invece risuona con un’eco assordante.
Oggi il sogno di Mahmoud è di ritornare a essere bambino e vivere la quotidianità della vita, ma nessuno potrà mai fargli dimenticare il trauma subito.
Letizia Manera
Mahmoud Ajjour: una straziante testimonianza fotografica di resilienza
È Samar Abu Elouf, fotoreporter autodidatta originaria di Gaza, a trionfare nella categoria “singole” del World Press Photo Contest del 2025 con la fotografia dell’anno: uno scatto che ritrae Mahmoud Ajjour, un bambino gazanese di nove anni, mutilato da un’esplosione mentre cercava di mettersi in salvo da un attacco israeliano insieme alla famiglia.
Mahmoud è raffigurato frontalmente, con il volto orientato a sinistra, nell’intento – forse – di sottrarre il proprio sguardo dall’obbiettivo della fotocamera, pronta a ritrarre il suo corpo amputato. Uno sguardo assente, perso nei pensieri. Non è lo sguardo di un bambino, non più: è lo sguardo vuoto di chi è sopravvissuto, ma anche di chi è consapevole che gli orrori della guerra non sono finiti.
Indossa una semplice canotta bianca, senza macchie, pura come il suo spirito, troppo presto privato dell’innocenza infantile, traumatizzato tanto quanto il corpo. Il candore del vestiario è enfatizzato da un gioco di luci e ombre che, oltre a illuminare il viso del ragazzo, ne pone in risalto la magrezza.
Premiata dalla giuria per la forza del suo impatto visivo, l’opera della fotografa fa sì che l’esile corpo del giovane, così immortalato, richiami la solennità di una statua: muta, immobile e insensibile allo scorrere del tempo.
Milena Messeri
La speranza e la dignità delle vittime innocenti
Mahmoud Ajjour ha 9 anni ma ha vissuto una vita intera; adesso ne inizierà un’altra. La foto vincitrice del World Press Photo 2025 è molto semplice e, allo stesso tempo, racconta tantissimo: è la storia di tutti quei bambini che, come Mahmoud, hanno vissuto troppo.
La
guerra è la più grande atrocità dell’uomo e la dimostrazione è il
coinvolgimento di chi è puro: i più piccoli,
costretti a crescere in un attimo, costretti a vedere e a sentire sulla
propria pelle il limite estremo del disumano.
Mahmoud ha perso le braccia e deve addirittura ritenersi fortunato; ha visto la sua vita cambiare totalmente in un istante, ma si è salvato. Ed è forse proprio da questo che emerge il significato e la forza della foto: l’accettazione e la speranza perché c’è ancora vita; lui ce l’ha fatta e deve esserne fiero, deve stringere i denti anche in nome di chi è stato più sfortunato. Il suo sguardo è sereno, il suo corpo mutilato è dritto sulla schiena, e trasmette una grande dignità.
Mahmoud ha visto troppo e proprio per questo è pronto, non avrà paura di ricominciare.
Andrea Salcuni
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