La città come specchio: identità e appartenenza culturale attraverso l’urbano
Nella dinamicità frenetica che caratterizza la vita contemporanea può essere complesso stabilire un confine tra identità individuale e senso di appartenenza culturale. Le peculiarità del singolo sono spesso al servizio di un appiattimento dettato dalle logiche di un mercato sempre più globalizzato, dove l’omologazione è fortemente incentivata in nome di una diversità precotta e prestabilita. In altre parole, più facile da vendere. Questa tendenza è così forte che si riflette anche nei centri abitati.
Persino le stesse capitali del mondo, lungi dall’essere
rappresentative della meravigliosa complessità di una cultura o dell’incontro
di diverse collettività, si uniformano a uno standard ripetitivo. In
nome di una presunta apertura, le città si costellano di catene e
prodotti, ormai ricorrenti in tutto un globo sempre più “rimpicciolito dai voli
low cost”. Come si colloca, dunque, la questione dell’identità, sia essa
individuale o culturale, in un panorama costellato da non-luoghi popolati
soltanto da “riti e miti collettivi”, riprendendo Ugo Volli?
A tal proposito, forniscono un ottimo spunto di analisi gli ecosistemi
urbani delle grandi città contemporanee. Nel suo libro Dopo la
metropoli. Per una critica della geografia urbana, Edward Soja analizza il concetto di “glocalizzazione” inteso come unione
tra globale e locale. L’idea è molto semplice: laddove le strutture e le pratiche
specifiche di una determinata cultura sono inserite e reinterpretate a livello
globale, viceversa, usi e abusi dal portato mondiale si impongono con forza
nelle realtà locali con il rischio – in entrambi i casi – di sprofondare
in una piatta uniformità.
Se questo assunto può valere in un contesto cittadino, si
presta altrettanto bene a essere applicato su scala più generale anche per
quanto riguarda i soggetti che popolano la realtà contemporanea. Nel caotico intreccio
di una società sempre più globalizzata e capitalista, l’identità
sfaccettata e multiforme del singolo è sempre inevitabilmente minacciata da
fenomeni di omologazione, che sembrano capaci di trascendere sia i confini
geografici sia le specificità culturali.
Apprezzare la singolarità di ogni cultura, riconoscendone il
valore intrinseco, è un’operazione che cela un delicato equilibrio tra
apertura e protezione, apprezzamento dell’unicità e volontà di proteggerla da
eventuali insidie esterne. Pertanto, la volontà di difendere l’identità
porta con sé dei rischi, i quali, nel peggiore degli scenari, possono sfociare
in chiusure conservatrici o in un vero e proprio senso di rifiuto verso il
diverso.
Come postulava Umberto Eco, nel rapporto con l’alterità è essenziale creare un nemico non
solo per definire la propria identità, ma anche per accostare e misurare, grazie
a esso, un intero sistema di valori costitutivo per la cultura di appartenenza.
Ne sono un esempio fenomeni di governance urbana dove all’interno delle
stesse comunità si alzano muri, a volte di pietra e altre volte
ideologici. A tal proposito, Wendy Brown parla di confini pensati per dividere un “noi” da un “loro”, che
si stagliano paradossali all’interno di quelle stesse città progettualmente
diverse, eppure fatalmente tutte uguali.
Il riconoscimento dell’unicità di ogni cultura e tradizione a essa associata può essere un’ottima chiave di lettura per interpretare il mondo in tutta la sua varietà e ricchezza. Dunque, quello in cui bisogna auspicare è l’incontro tra sistemi diversi, fondato su riconoscimento ed esplorazione reciproca. Evitando al contempo il rischio di cadere in vere e proprie “ossessioni identitarie” da una parte, o in omologazioni forzate dall’altra, che possono solamente nuocere a un dialogo costruttivo tra realtà eterogenee.
Giulia Mazzini

Commenti
Posta un commento