Omologazione senza identità: creatrice di una cultura vuota
Come afferma Gian Paolo Caprettini, “credere che la cultura sia una sorta di zona astratta dell’attività umana, ininfluente sugli andamenti socio-economici è un grave errore”. Ancora, se “tutto è cultura”, allora lo sono anche quegli oggetti propri dell’uniformazione, capisaldi del mercato globale, riti e abitudini che l’omologazione crea. Ma senza ridare identità all’omologazione che crea cultura, si finisce per costituirne una vuota, persa in un flusso di abitudini di cui non conosciamo più le ragioni, forse perché dopo un po' smettiamo semplicemente di cercarle.
Sebbene l’omologazione possa rappresentare l’appiattimento e la morte di un’identità unica e irripetibile, spesso però condannata a essere emarginata, è anche vero che nessuno può totalmente sfuggire a questa condizione. Per farlo nella maniera più totale occorrerebbe inventarsi da zero dei nuovi costumi, delle nuove mode e intraprendere strade mai percorse prima. Oppure isolarsi dal resto del mondo e vivere da eremiti.
A sostegno del fatto che omologazione e cultura siano due realtà strettamente intrecciate, è interessante notare come ciò che rientra nella sfera della massificazione, della normalità estrema, possa cambiare nell’arco di generazioni o addirittura di pochi anni. Così com’è vero che la cultura cambia e si evolve nel tempo, pur mantenendosi ancorata ad alcuni principi di base, costituenti la ben nota “tradizione”, anche gli strumenti e i protagonisti dell’omologazione cambiano. Pur proponendo un unico modello al quale adeguarsi, creando un apparente senso di immobilismo, essa è tutt’altro che immobile, rendendoci uguali ma sempre in continuo mutamento.
Cambiando volto e contenuti, ciò che un tempo poteva essere visto come individuale, unico e da tenere alla larga in quanto “nemico” perché diverso, può in un secondo momento entrare nella cerchia dei favoriti e scrollarsi di dosso l’etichetta di indesiderato. Si pensi all’esponenziale aumento delle vendite di fumetti che, stando ai dati dell’AIE (Associazione Italiana Editori), è uno dei generi in continua crescita nell’ambito delle vendite del settore editoriale nel nostro Paese. Prodotti che fino a dieci anni fa era possibile trovare solamente nei negozi specializzati e raramente nelle librerie generaliste, visti molto spesso come di scarsa importanza, appartenenti a una cultura più emarginata.
È dunque l’omologazione che riscrive la cultura, o meglio la sua importanza, dando spazio e visibilità a chi prima non ne aveva? Se non possiamo sfuggirle, si rivela quanto mai necessario evitare che ciò che viene riscritto, per così dire, perda il suo valore, la sua identità. Attribuendola noi stessi, attraverso un uso più consapevole degli oggetti e dei riti di questa uniformazione inevitabile, ci muoviamo alla ricerca di una motivazione nel nostro uso della formula omologante, osservandola con distacco e razionalità. “Un recupero identitario senza ossessioni”, come propone Ugo Volli, che dona individualità a noi stessi e all’oggetto di massa.
Sebbene l’omologazione possa rappresentare l’appiattimento e la morte di un’identità unica e irripetibile, spesso però condannata a essere emarginata, è anche vero che nessuno può totalmente sfuggire a questa condizione. Per farlo nella maniera più totale occorrerebbe inventarsi da zero dei nuovi costumi, delle nuove mode e intraprendere strade mai percorse prima. Oppure isolarsi dal resto del mondo e vivere da eremiti.
A sostegno del fatto che omologazione e cultura siano due realtà strettamente intrecciate, è interessante notare come ciò che rientra nella sfera della massificazione, della normalità estrema, possa cambiare nell’arco di generazioni o addirittura di pochi anni. Così com’è vero che la cultura cambia e si evolve nel tempo, pur mantenendosi ancorata ad alcuni principi di base, costituenti la ben nota “tradizione”, anche gli strumenti e i protagonisti dell’omologazione cambiano. Pur proponendo un unico modello al quale adeguarsi, creando un apparente senso di immobilismo, essa è tutt’altro che immobile, rendendoci uguali ma sempre in continuo mutamento.
Cambiando volto e contenuti, ciò che un tempo poteva essere visto come individuale, unico e da tenere alla larga in quanto “nemico” perché diverso, può in un secondo momento entrare nella cerchia dei favoriti e scrollarsi di dosso l’etichetta di indesiderato. Si pensi all’esponenziale aumento delle vendite di fumetti che, stando ai dati dell’AIE (Associazione Italiana Editori), è uno dei generi in continua crescita nell’ambito delle vendite del settore editoriale nel nostro Paese. Prodotti che fino a dieci anni fa era possibile trovare solamente nei negozi specializzati e raramente nelle librerie generaliste, visti molto spesso come di scarsa importanza, appartenenti a una cultura più emarginata.
È dunque l’omologazione che riscrive la cultura, o meglio la sua importanza, dando spazio e visibilità a chi prima non ne aveva? Se non possiamo sfuggirle, si rivela quanto mai necessario evitare che ciò che viene riscritto, per così dire, perda il suo valore, la sua identità. Attribuendola noi stessi, attraverso un uso più consapevole degli oggetti e dei riti di questa uniformazione inevitabile, ci muoviamo alla ricerca di una motivazione nel nostro uso della formula omologante, osservandola con distacco e razionalità. “Un recupero identitario senza ossessioni”, come propone Ugo Volli, che dona individualità a noi stessi e all’oggetto di massa.
Margherita Ronzoni
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