Tra appropriazione e riconoscimento dell’identità: il caso degli indigeni brasiliani
Da sempre il dibattito su ciò che è minaccioso per la nostra cultura rientra nella definizione di diverso. Diverso e minaccioso però non sono sinonimi, né tanto meno correlati. È il frutto di una nostra rappresentazione, è il risultato di un punto di vista attraverso cui un interprete costruisce sé stesso mediante lo studio degli altri.
“Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell'affrontarlo, il valore nostro”così Umberto Eco, in un suo articolo del 2011, si soffermava sulla problematicità dell’avere un nemico.
In
un percorso narrativo in cui lottiamo contro un nemico per riconoscere ed
elevare la nostra cultura, andiamo ad affossare anche l’identità dell’Altro,
diventando a tutti gli effetti il suo nemico. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo, anche in nome di un mercato globale.
Il
caso degli indigeni brasiliani risulta esemplificativo. Nel corso dei decenni
l’appropriazione di vaste zone della foresta amazzonica, in cui si
istituiscono grossi centri di produzione agricola, ha contribuito a distruggere
il tratto identitario di queste popolazioni.
Vocati a una vita armoniosa in contatto con la natura e all’agricoltura come fonte di sostentamento, nel corso degli anni gli indios hanno rimodulato il loro sistema di vita trovandosi confinati ai margini della società per poter sopravvivere. Società che talvolta stentava a riconoscere la loro identità culturale e i loro diritti.
Ogni storia è caratterizzata da soggetti che tentano di raggiungere il loro oggetto di valore; nel caso degli indios, essi si sono posti come soggetti e oggetti nella più ampia narrazione proposta nei documentari Indigenous Video coordinati dall’antropologo Vincent Carelli. Non più rappresentazione mediata da uno sguardo estraneo, ma l’autorappresentazione come forma comunicativa prediletta per restituire all’immaginario collettivo un’immagine non feticizzata della loro cultura. Posti davanti e dietro la macchina da presa, gli indigeni tentano di renderci intellegibili le loro forme di esistenza quotidiana, ma non solo: attraverso queste produzioni etno-cinematografiche fanno sentire la loro voce. Vogliono vedersi riconosciuti i loro diritti e le loro terre, affermando l’identità che gli è stata sottratta.
In un mondo che tende all’omologazione, in cui “è forse il caso di recuperare l’identità […] per riuscire a sopravvivere”, come sostiene Ugo Volli, la causa degli indios risuona come una duplice campagna impegnata su due fronti: riaffermare la loro identità autorappresentandosi, diventando i soggetti dell’enunciazione etnografica, e svincolarsi dall’idea di minacciosità che derivava dalla “viziata” interpretazione occidentale.
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