Anche i semi sanguinano: "Blood is a seed" di Isadora Romero
Se anche un seme può sanguinare, cosa accadrebbe se tutti i semi di cui siamo a conoscenza morissero nello stesso momento? Il cortometraggio Blood is a seed (Il sangue è un seme) della fotografa Isadora Romero intreccia due temi molto discussi negli ultimi anni: tradizione e biodiversità.
L’opera, che nel 2022 ha vinto il World Press Photo nella categoria Open Format Award, affronta la sofferenza di una cultura autoctona che cerca di resistere alla colonizzazione. E lo fa con scelte stilistiche ben precise.
Sfruttando
la struttura audiovisiva del suo lavoro, Isadora Romero comincia
la propria narrazione personale con una contraddizione: natura vs tecnologia.
Su un terreno agricolo è adagiato un panno cosparso di semi; in
sovraimpressione scorrono lunghe linee di codici accompagnati da suoni
digitalizzati. Un’immagine dal forte impatto visivo che anticipa quello che
sarà il fil rouge di tutto il video.
La voce narrante è della fotografa accompagnata da quella del padre. Attraverso le loro testimonianze si srotola la tradizione della loro terra che in questo caso riveste una duplice valenza: se da una parte è intesa come suolo in cui si piantano i semi della loro coltura (dei semi di patata), dall’altra invece il significato si allarga integrando il concetto di cultura vera e propria.
La
cultura dell’uomo parte dai gesti più elementari che scavano nella memoria e si
radicano nelle usanze di un popolo, afferma l’antropologo Clifford Geertz. Il video di Romero ci racconta proprio questa idea unendo la memoria
familiare alla tradizione agroalimentare.
La staticità delle immagini, la mancanza di luce, le voci solenni e malinconiche contribuiscono alla formazione di un’atmosfera rassegnata rispetto al tema. Il presente vede l’affermazione più totale del processo di colonizzazione. L’uomo è privato della sua memoria e delle sue usanze, quindi della propria identità; il suolo è lo specchio di questa condizione e Isadora lo sa bene.
Il terreno, prima approcciato come si fa con un organismo vivente al pari dell’uomo, diventa ora mero oggetto di produzione agricola. In grembo alla terra crescono ormai solo semi geneticamente modificati in laboratorio, da qui la scelta visiva di moltiplicare immagini uguali che rimandano al processo di clonazione. La biodiversità delle patate si riduce quindi a due sole varianti. Una coltura che viene persa perde anche la sua memoria genetica.
La
colonizzazione si traduce infine in una deprivazione della conoscenza degli
agricoltori, ma non solo, anche la memoria culturale di villaggi, città e paesi
viene compromessa. L’individuo, ormai privo delle competenze apprese dal
passato, è obbligato a
un nuovo inizio senza meta né appiglio.
Luca Baldacci e Antonio Verlino
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