Identità e narrazioni globalizzanti
Che lo si voglia o meno l’identità è sempre presente, per quanto vago possa apparire oggi questo termine. Come sostiene Ugo Volli nel suo articolo Identità, essere uguali ma non omologati, “l’identità è condizione non solo di continuità ma anche di cambiamento, perché non c’è progetto senza basi di memoria”. A nulla serve inneggiare a una presunta “invenzione delle tradizioni”. Qui si sta parlando di meccanismi antropologici molto profondi. Come ci ricorda Volli, che essi siano in parte costruiti e non “naturali” è ben noto da sempre e andrebbe definitivamente accettato. D’altra parte, non è nella stessa “natura” dell’uomo il costruire incessantemente qualcosa di nuovo?
Oggi le voci sono sempre più numerose e sempre più comunicano tra loro. Come però ci ricorda Volli, “le idee dominanti sono ancora quelle della classe dominante”. I dissidenti si moltiplicano, interagiscono, ma rimangono ai margini, sono comunque una controparte del Grande Altro. Una voce dominante è sempre esistita e con ogni probabilità sempre esisterà, soprattutto se intangibile.
Una voce dominante implica la costruzione di un nemico, di un oppresso. Umberto Eco, nel suo articolo Il diverso che viene trasformato in nemico, ci offre numerosi esempi che mostrano come nei secoli l’essere umano abbia avuto questo controverso bisogno di costruirsi una nemesi, più o meno reale, per costruire sé stesso di conseguenza: “avere un nemico è importante non solo per la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori”. La storia ci insegna che questi sono aspetti che purtroppo non possiamo negare, aspetti dell’essere umano con i quali occorre scendere costantemente a compromessi.
Quando Volli sostiene che oggi “siamo tutti felicemente anonimi” è ben consapevole dell’amarezza di un orizzonte che riflettendo tutto non riflette altro che sé stesso. Certo, come la questione del nemico ci mostra, spesso le identità sono ingombranti e tra loro conflittuali. Ma non è forse meglio accettarle e cercare ogni possibile forma di dialogo tra di esse piuttosto che abbandonarsi all’anonimato delle narrazioni globalizzanti? Dopo tutto, quanto spesso sentiamo ripetere che l’Italia ha uno dei più grandi patrimoni culturali dell’intero mondo? Non possiamo valorizzare questo (come qualsiasi altro) patrimonio se non accettiamo l’idea che tra identità e culture diverse vi debba e vi possa essere una possibile traduzione che però, come tutte le traduzioni, si costituisce inevitabilmente di guadagni e di perdite. Come sostiene Gian Paolo Caprettini nel suo articolo Esiste una cultura straniera?, “dobbiamo accettare l’idea che ci saranno sempre asimmetrie di nuovi orizzonti da comprendere e sempre nuovi fraintendimenti da superare”. Abbiamo un costante bisogno di tradurre ciò che arriva dall’esterno: l’estraneità come punto di partenza, non di arrivo.
L’immaginario di ciascuna tradizione è forse la più grave vittima di queste narrazioni anonime e cosmopolite così piene di senso e al tempo stesso così irrimediabilmente vuote. Conclude Volli: “per non affogare nella moltitudine globalizzata, non abbiamo altro strumento” che le identità. E non quelle “semplici”, preconfezionate e uguali in tutto il mondo.
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